la guida-il governo-la cura

La guida, il governo, la cura

La guida

Dalla radice indeuropea swer- discende un insieme di concetti di grande respiro: ‘vedere’, ‘guardare’, ‘conservare’, ‘vegliare’, ‘indicare’. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa.

Di qui il sanscrito varutá, ‘protettore’; il greco horán:’vedere’; così come il latino observare: ‘ob’, verso, ‘servare’, con la duplice accezione di ‘fare attenzione’, ‘adempiere’, e di ‘non togliere mai gli occhi di dosso’. Da swer-, ancora, l’italiano garanzia, e l’inglese warrant.

Insomma, la radice swer- ci spinge ad allargare lo sguardo. Ci invita a guardare lontano, e a muoverci nel dubbio, nell’incertezza: leggendo indizi nel terreno che calpestiamo, ponendo attenzione alla banderuola che indica il vento.

Nel significato dell’espressione, fondamentale il passaggio al significato attivo: ‘far vedere’, ‘fare osservare’, ‘far prendere una direzione’. Mostrare agli altri il cammino, il lavoro da fare, non solo andando innanzi, ma anche se del caso accompagnando, affiancandosi, dirigendo l’andare in una data direzione, indicando i punti di svolta, segnalando il pericolo – ed anzi: mostrando come muoversi da soli nell’imminenza del pericolo. Più la guida è capace, più rende gli altri capaci di muoversi in autonomia.

E il senso si allarga ancora: ammaestramento, direzione, consiglio, protezione, sostegno morale o materiale, soccorso.

Virgilio guida Dante, ma non si sostituisce a lui, né gli impone il suo volere. Torna qui in mente il senso rivelato dall’etimologia di leader: ‘colui che guida la danza’, colui che detta il ritmo, e aiuta gli altri a mantenerlo.

La guida alpina conduce in escursione garantendo la sicurezza, ma permettendo a ognuno di fare la propria esperienza.

La guida non sta necessariamente in testa alla fila, al vertice della piramide organizzativa, eppure risalta per carisma, o per esperienza, o per conoscenze professionali. La guida stimola l’azione collettiva, la partecipazione, la crescita individuale. La guida mostra ‘come si fa’: non è necessariamente il capo, è colui che sa affiancare gli altri come primus inter pares.

Al posto di manager che impongono agli altri le ragioni della propria carriera, o che assoggettano le imprese agli interessi di un solo stakeholder o di una sola lobby, ecco dunque una figura professionale orientata a sostenere ognuno in un ragionevole perseguimento dei propri interessi. Nel rispetto delle diverse attitudini e dei diversi punti di vista. Figura orientata all’integrazione, alla conciliazione, alla valorizzazione dei talenti, al miglioramento personale e collettivo.

Il governo

Il governo è, in senso stretto uno strumento: il timone. Perciò possiamo intendere il governo, o timone, come simbolica, sintetica immagine di ogni strumento che si usa per ‘fare il punto’, per ‘leggere la situazione’, vedere oltre i confini del noto, del già fatto e del giù detto. Per valutare lo stato delle risorse, per ripensare, alla luce delle condizioni presenti, la tensione verso la meta, lo scopo, il fine dell’impresa. Non dunque strumento di controllo -verifica a ritroso, ricerca della conformità a una rotta già tracciata-, ma all’opposto strumento per leggere l’istante, il qui e l’ora, come spazio di possibilità, come apertura al futuro.

L’impresa, l’azienda, l’organizzazione: imbarcazioni non necessariamente perfette, ma comunque in grado di galleggiare e di muoversi nella direzione voluta, anche in un mare periglioso, anche durante le tempeste.

Il manager tende ad applicare modelli e schemi. Il manager si protegge dal possibile insuccesso, e ancor prima dal possibile giudizio negativo, ripetendo percorsi altrui, attenendosi a procedure, conformandosi a consigli di consulenti. Subendo, facendo propri gli obiettivi dello stakeholder che appare al momento più forte. Il manager appena può si afferra a routine: alla lettera ‘piccola strada’, ‘strada già tracciata’. Mentre chi governa apre la strada: il latino rupta, da cui rotta, ma anche il francese route, sta per via rupta: nuova strada aperta; praticabile strada vista lì dove altri non sapevano vedere che terreno non percorribile.

Il manager pianifica e programma, e poi esegue. Anzi, controlla che chi lavora alle sue dipendenze esegua alla lettera. Governare, invece, è impegnarsi in prima persona. Governare significa assumersi rischi, significa affrontare situazioni nuove di fronte alle quali ‘non si sa cosa fare’. Governare significa scommettere sulle proprie e sulle altrui capacità – anche su capacità non ancora visibili e palesi. Governare significa tenere il ritmo: muoversi in sintonia con l’ambiente circostante. Significa tendere verso la meta sia in condizioni di mare buono che di mare cattivo. Significa, istante dopo istante, cogliere il momento propizio: l’esperienza non è usata difensivamente come rassicurazione; è invece spesa nel momento, utilizzata per muoversi in circostanze mai prima sperimentate.

La responsabilità del governo riguarda chi è investito del ruolo di responsabilità, ma anche, tutti coloro che partecipano all’equipaggio, all’azienda. Per ogni stakeholder, il perseguimento del proprio interessa passa sempre anche attraverso l’assumersi una ragionevole quota della responsabilità del governo.

La cura

La cura è un atteggiamento complessivo: ‘preoccupazione’, ‘ansioso pensiero a proposito di’; ‘osservazione’, ‘attenzione a’, ‘custodia di’, ‘interesse per’. Cura è ‘proteggere’, ‘mantenere’, ‘provvedere’, ‘procurare’, ‘nutrire’.

In greco troviamo merimna, ‘cura’, ‘preoccupazione’, dalla radice indeuropea smer: ‘aver parte di’, ‘ricordare’, stessa radice di moira, merito, memoria. E anche: tetíemai, ‘sono inquieto, abbattuto’, dalla radice kwei, ‘cruccio’, ‘preoccupazione’. Da questa stessa radice, probabilmente, l’antico latino coisa, e quindi il latino cura. Di qui, già in latino, incuria, securus, ‘libero da crucci’. Per limitarci alla nostra lingua -ma altrettanto accade nelle altre lingue neolatine-, abbiamo così, tra l’altro, cura, sicurezza, assicurazione, accuratezza.

Cura è il quotidiano preoccuparsi riguardo al ‘che cosa si ha da fare’ e a ciò di cui ci si deve di volta in volta ‘prendere cura’, acquista senso solo alla luce del progetto personale, del mio modo di essere inteso nelle sue estreme possibilità. Cura è esserci: io qui sto facendo questo. La ‘cura’ riguarda innanzitutto se stessi, e poi gli altri, il mondo.

Dal latino cura deriva il tedesco Kur, ma Heidegger -attentissimo all’uso della lingua- usa Sorge. L’indogermanico suergh, dai cui Sorge discende, ci parla di ‘opprimente sensazione di ‘inquietudine’, ‘timore’, ‘ansia’, ‘preoccupazione’, ‘star male’.

Così come la Sorge di Heidegger è tradotta in italiano cura, in inglese è care – il cui senso originario, legato alla radice indogermanica karo, torna sull’idea di ‘sorrow’, ‘pena’, ‘letto di dolore’.

Possiamo quindi forse dire che la cura si riassume nel dirci: ‘questo ci inquieta’. Lasciando aperta la possibilità -legata alla nostra responsabilità personale- di aggiungere: ‘stai tranquillo’, e magari anche: ‘andrà tutto bene’.

Dunque: tener desta l’attenzione, farsi carico, non prendersela comoda. Con scrupolo, diligenza, attenzione, rispetto. Sempre partendo da noi stessi, ma guardando oltre. Curiosus è in latino: ‘chi si prende cura anche di cose che non lo riguardano’.

La cura si manifesta a tre livelli: innanzitutto nel ‘lavoro su di sé’: nel farsi carico della propria formazione, del proprio sviluppo. Solo chi sa prendere cura di sé stesso può prendersi cura degli altri. Non sostituendosi a lui ma mostrando la strada che porta all’assunzione di responsabilità individuali e sociali. Infine, terzo livello, la cura è ‘procurare’, offrire ciò che serve perché gli altri possano lavorare in modo efficace: giusta remunerazione, ambiente di lavoro adeguato ecc.

Guida, governo e cura sono i compiti di ogni manager. Ma innanzitutto del Direttore del Personale e chi desidera crescere verso la sempre maggiore assunzione di responsabilità all’interno della Direzione del Personale.

 

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