Su un tema è importante aggiornare l’atteggiamento della Direzione del Personale: la scomparsa del luogo di lavoro. Come si possono dirigere, e guidare, governare e curare persone che non vediamo in faccia, che stanno lontane, magari ognuna a casa propria?
Questo è un tema su cui hanno molto da dire giovani che sono cresciuti quando la digitalizzazione e la virtualizzazione erano già dati di fatto. Forse solo quando saranno loro i Direttori del Personale la questione verrà affrontata efficacemente. Ma intanto, discutiamone. Qui di seguito propongo una breve riflessione.
Si parla fin troppo, in ogni dove, di trasformazione digitale. Si parla di come la trasformazione digitale muta i rapporti di lavoro.
Si discute in questi giorni nel nostro paese a proposito della bozza preliminare del disegno di legge riguardante il cosiddetto lavoro agile (qualcuno come al solito preferisce l’inglese: smart working). Si legge nel titolo della bozza: “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Non solo le forme di lavoro autonomo e precarie vedono scomparire il netto confine tra lavoro e tempo libero. Lo stesso lavoro subordinato a tempo indeterminato muta radicalmente sotto la pressione delle tecnologie digitali e della pervasiva presenza della Rete. Ognuno dispone di un computer, e di un tablet, di uno smartphone, si può lavorare dovunque, senza vincolo di orario. Si tratta evidentemente di una nuova libertà, ma anche di una possibile invasione del tempo libero, del tempo di riposo.
Si è letto sui giornali di come la ministra del lavoro francese Myriam El Khomri si propone di inserire nel Codice del lavoro il “diritto alla disconnessione”. L’articolo 24 del progetto di legge parla esplicitamente di “diritto al riposo”.
Buonissime le intenzioni: email di lavoro e connessioni alla Rete per motivi di lavoro, prolungate in ore serali, e nei giorni festivi, fanno male alla salute. Ma abbiamo forse bisogno di uno Stato Etico che decida per noi cosa è giusto e cosa è sbagliato; quando lavorare e quando riposarsi? E che possibilità hai poi questo Stato di imporre regole che possono essere intese anche come lesione di una libertà individuale? E dopotutto, essere sempre connessi non significa solo essere talvolta costretti al lavoro in ore serali, significa anche poter giochicchiare con i social network e potersi occupare di cose personali durante le ore di lavoro.
“Nate con i social network, le giovani generazioni non si connettono più: vivono connesse, e considerano la disconnessione imposta come un insopportabile paternalismo”, scrive su Le Monde il giuslavorista Jean-Emmanuel Ray, docente di diritto alla Sorbona. Di fronte a questa abitudine alla connessione -atteggiamento diffuso non solo tra i giovani- è giusto ricordare che esiste anche la vita fatta di relazioni umane, di incontri faccia a faccia, di passeggiate nel mondo-non-digitale. Ma non credo che l’affermazione del principio per via di legge serva a molto. Serve semmai un’educazione alla disconnessione. Direi anzi, un’autoeducazione. E mail, social network, Rete, sono una risorsa. Dobbiamo imparare ad usare la risorsa, evitando abuso ed assuefazione.
Il danno sociale sta nell’abuso e nell’assuefazione alla vita digitale – non nel ricevere o spedire in ore serali email di lavoro. Se sappiamo disconnetterci, sapremo anche porre limite all’invasione del lavoro fuori orario.
Non è una grande novità. Ricordo che all’inizio degli Anni Novanta mia moglie mi regalò una segreteria telefonica. Il mio datore di lavoro se ne accorse, perché, telefonandomi la domenica, trovava la segreteria inserita. Allora mi disse: “Lei ha messo una segreteria telefonica in modo da evitare di rispondermi la domenica”. Gli risposi: “Sì”. Questa affermazione di libertà mi costò molto. Ne pagai le conseguenze. Ma ancora oggi credo ne sia valsa la pena.
Lo stesso progetto di legge francese, al di là dell’affermazione di principio, rimanda alla fine ad un ad un accordo tra le parti. Si torna insomma alle scelte degli attori: le persone, le imprese.
In Germania il tema è da tempo all’ordine del giorno: dal 2011 Volkswagen interrompe le comunicazioni digitali coi suoi lavoratori dalle 18.15 di sera alle 7 del mattino. Bmw, Henkel, Deutsche Telekom hanno seguito la stessa strada. Ma anche qui non ci si allontana molto dall’affermazione di principio. Si può ben spegnere il server della posta aziendale alle 18 per riaccenderlo alle 7 del giorno dopo. Ma niente impedisce di farsi girare l’email aziendale su un altro indirizzo. Nessuno può impedire di lavorare la sera, se uno vuole.
Nella stessa Francia, due anni fa, è stato sottoscritto un accordo tra Syntec, associazione di rappresentanza padronale del settore dell’informatica e della consulenza e le organizzazioni sindacali. L’accordo prevede che i lavoratori che non dispongono di giorni lavorativi fissi. Si lavora a ore. Si può lavorare al massimo fino a 13 ore al giorno, purché si riposi per 11 ore fra un giorno di lavoro e l’altro. Ma poi, appena firmato l’accordo, Max Balensi, direttore generale di Syntec, dichiarava: “non impediremo certo a un impiegato che si porta un dossier a casa su una penna USB di lavorarci sopra”.
Insomma, al di là di tutto la trasformazione digitale ci impone una virtuosa discontinuità. Scompagina le carte. Ridefinisce il tempo di lavoro, e il concetto stesso di lavoro. Impone nuovi patti. Nuove assunzioni di responsabilità. Sia da parte dei datori di lavoro, sia da parte dei lavoratori. Serve però conoscere a fondo le tecnologie. Serve impadronirsene, per non diventarne schiavi.